Dicono che l’India la si ama o la si odia.
Io dico che non ero semplicemente pronto, ero preparato a tutto ma pronto a niente.
Ho passato 9 mesi a spasso per il mondo, ma il tempo trascorso in India è andato aldilà del semplice concetto di “intensità”.
Un tetris vivente fatto di anime dal sorriso smagliante. Un tintinnio di teste perennemente incuriosite dallo straniero di turno.
In India mi sono sentito a casa come un pesciolino rosso in cerca dell’oceano.
Gli indiani poi sono strani, sempre pronti a dare una mano in cambio di qualche promessa di fede ancorata al dubbio di una futura amicizia lontana.
In India ho lavorato in cambio di vitto e alloggio, vi giuro che in due giorni avevo già finito tutto il mio lavoro, ma sembrava quasi che Talab avesse più bisogno di un amico che di una mano con i cammelli.
In India sono stato investito da una mucca sanguinante per equilibrare una bravata risalente al passato spagnolo, quando ero io a rincorrere loro, il karma non dimentica.
In India i treni non hanno nulla da invidiare alle più elaborate industrie di beni e consumi per uso sia interno che esterno, il treno è un viaggio nel viaggio.
Gli indiani sono capaci di tutto, l’ingegno nasce dal bisogno, il bisogno dalla mancanza, la mancanza per certi versi nasce sulle labbra dei Sadhu.
In India i corpi bruciano…anche adesso mentre scrivo, mi basta chiudere gli occhi e sono di nuovo lì sulle rive del Gange, a Varanasi, con gli occhi puntati su quelle fiamme, il fumo grigio sale fino al cielo confondendosi con il volo degli aquiloni, tutt’intorno la vita scorre al contrario.
In India niente è come sembra. Lenzuola pulite tentano il volo dai cancelli arrugginiti per arrivare fin dove il corpo non si riposa.
L’India mi ha rubato un pezzettino di vita e l’ha nascosta da qualche parte, lì tra i suoi milioni di Dei, lì tra un Thali e un buon Chai, lì dove il povero diventa ricco e viceversa in un mondo sottosopra fermo a mezz’asta.
L’India la si ama o la si odia…dicono così.